di Daniele MARINCIONI
Il giorno dopo il Derby di Roma è sfiancante. Un po’ come se fossimo reduci da una nottata con la febbre a 40.
Le tensioni accumulate con le chiacchiere, gli slogan, i pronostici si riversano puntualmente il giorno dopo lasciando, al corpo e alla mente, quel senso di spossatezza che stordisce.
Roma-Lazio è stato uno spettacolo. Più del pubblico che degli interpreti in campo: viste le premesse coreografiche ci si aspettava lo stesso in campo, ma non tutto sempre segue una coerenza “karmica”.
Ieri è stato quasi tutto emotivamente faticoso da sopportare: tanti episodi, tanti pensieri, i soliti riti. Una ossessione. La croce e delizia del tifoso romano.
Maestosa la Curva Nord che, come al solito, ha mozzato il fiato con uno scenario unico, originale. Meno pretenzioso il palcoscenico offerto dalla Sud: più semplicistico nella sua composizione. Ma pur sempre uno scenario.
Una partita insolita, quella della Banda Inzaghi, che nonostante sia stata più incudine che martello, ha tenuto botta ad una Roma furba, strategica che ha dominato. Si! Ha dominato. Lo ha detto Inzaghi, lo ha riconosciuto Radu. Può succedere e ieri è stato. Come è stato per l’andata dove il risultato doveva essere sportivamente diverso, ieri è toccato dall’altra parte recriminare. Un derby molto strano: la Lazio di qualche anno una partita così l’avrebbe persa. La Roma il contrario. Cambiano gli uomini e, insieme ad essi, anche le situazioni. Questo è il CALCIO. Che piaccia o no è un risultato che va accettato, analizzato, ma non necessariamente reso isterico.
Dovremmo tutti ripartire dalle parole di Inzaghi. Dal riconoscimento dei meriti degli altri e dei limiti che, almeno nell’occasione di ieri, sono emersi.
L’aria friccicarella del derby romano invecchia mettendo in risalto le sue fragilità. Avversa all’autocritica sportiva ma troppo presa dall’esigenza di una supremazia o dell’ultima parola: non si riconosce un giusto merito e un altrettanto demerito, conta solo riversare. Ma attenzione: non si parla solo di tifo.
E’ ricorrente la riduzione al “è solo sfottò”. E’ ricorrente la strumentalizzazione di persone che non ci sono più, o peggio, all’augurio che alcune persone stiano male. In nome di un simbolo o di un’egemonia che sempre più fa rima con idiozia. Il confine diventa sempre più sottile: nasce, sornione, un problema sociale che rischia di intossicare un contesto che unisce e divide. Ma spesso sporca. Nessuno escluso.
Il più classico degli errori è attribuire l’esclusiva responsabilità alla categoria del “tifoso”. Aprendo la vetrina dei social chiunque, dai papà, alle mamme, dallo studente alla ragazza comune, è un tagliente autore che utilizza la tastiera come un mitra e carica l’ambiente più di un qualsiasi facinoroso. E dal PC si passa alle scritte sui muri, insulti al bar, a scuola tra i ragazzi – il gioco, il loro gioco, è fatto. La difesa non è il falso perbenismo bensì il buon senso.
Che parte dagli Uomini e poi dai tifosi.