di Arianna MICHETTONI
Io sono un uomo. Già, come tutti voi. Io sono un uomo e vi somiglio. Si intravedono i miei occhi nei vostri occhi e quasi si sentono le mie parole attraverso la vostra voce.
Io sono un padre. Già, come molti di voi. Ho due figli, li ho portati sulle spalle. E io sono un marito. Già. In tutto e per tutto conformato alle ferree regole sociali. Poi, però, sono anche un tifoso. Sì. Dannati biglietti, il prezzo è sempre un po’ aumentato. Dannati diritti TV. Dannati sediolini scomodi. E però, starmene pelle a pelle con quei colori elettivi, affettivi… spettacolare. Ché il mio canto è davvero stonato, ma in un coro non ha molta importanza. Sono un tifoso: ho quella presunzione lì, quella che mi convince che la mia squadra vinca un po’ per merito mio e non perda un po’ per merito mio e non avrebbe motivo di esultare, se non per merito mio. Sono un tifoso: la squadra di mio padre, di mio nonno, della mia famiglia che non è solo di sangue ma pure calcistica; porterò allo stadio i miei figli per continuare questa tradizione. L’ho promesso loro, prima di uscire: no, non stasera, si farà tardi e l’indomani c’è scuola. Papà tornerà per rimboccarvi le coperte e darvi il bacio della buonanotte, preparate gli zainetti rossi.
Dunque sono un uomo, un padre, un marito ed un tifoso: sono il riflesso di ognuno di voi. Il mio modo di camminare è del tutto simile al vostro: gambe che si allungano, passo dopo passo. Quel che non è simile, però, quel che differisce, quando si cammina da soli e si sta attenti, sta nella distanza: credevo di averne abbastanza. Fra me e loro. Fra me e gli altri. Credevo di somigliare ad una persona che passeggia sola come centinaia di persone che passeggiano sole, invece li ho visti avvicinarsi: erano in tanti. Senza contarli, no. Non ricordo neppure i loro volti. Erano uomini, come me, sì, e tifosi come me, sì, ad assistere ad una partita, come me. Questione di forme. Forse allora siamo uguali, forse no: io non sono come loro. Io sto disteso in un letto di ospedale, tra beep e monitor e il mio corpo pesante, e mia moglie piange – forse è dispiaciuta perché questo weekend non potrò accompagnarla al centro commerciale. Mi scappa un sorriso, questo strano e perverso senso dell’umorismo: l’altra parte di me, quella che giace inerme, non restituisce il risolino.
Eppure, starmene qui sospeso – è quasi volare! – mi riporta ad un senso di attesa. Si è tesi come prima di una coreografia, come prima del fischio di inizio, quando ancora tutto può succedere: e la coreografia sarà perfetta, e la partita sarà trionfante. La visuale da qui è ottima: mi dispiace per i miei avversari sul campo – sul campo –, chissà quanto dispiacere, chissà quale dispiacere: noi siamo più forti, sugli spalti c’è una rivalità migliore della loro violenza. Gli uomini, padri, mariti e tifosi identici a me si accorgono del mio posto vuoto e compensano la mia assenza con la loro grande forza allo stadio. Gioire non è vendicarsi, se si è tra le squadre più forti della competizione.
Io sono un tifoso e sono stato colpito in testa – non come un gol che continua a replicarsi nella sua perfezione agonistica. Ripetitivo, sì, ma doloroso: nemmeno come un rigore sbagliato – un dolore diverso. Sono stato colpito nel mio essere sostenitore – nel sostenere il valore della sportività, dell’entusiasmo e dello spettacolo. Vi ho detto di essere come tutti voi, eppure sono io al vostro posto – avrebbe potuto esserci chiunque, ci sono io. Che tra un grido spezzato ed un’azione sbagliata voglio ancora, voglio solo, sollevare una Coppa. Voglio vinca la mia squadra.