di Arianna MICHETTONI (foto © Antonio FRAIOLI)

Certe luci non puoi spegnerle; certe luci non puoi accenderle. E certe luci, seppur accese, poi si spengono, illuminano ad intermittenza: fanno dei giochi da vive e morte e sono programmate per eseguire una coreografia che, tra buio e scintilla, il passo di danza ha il suo insieme, la sua forma e il suo tempo.




Quelle luci lì sono più delicate, sono piccole, sono una serie per cui una vale tutte e quelle luci lì sono da grande occasione, da festa, sono speciali. Le si cercano, le si scelgono, le si comprano proprio così: ad intermittenza, come brillano agli occhi di chi le osserva un po’ incantato, un po’ felice. Allora, se le luci ad intermittenza sono così belle ed armoniche, non potrebbero esistere anche delle persone ad intermittenza? Ed essere belle ed armoniche, finite nella loro consistenza? Non potrebbero esistere anche delle persone che, da spente, tutti gli altri son lì intorno ad aspettare che si accendano – perché seguendo il ritmo si accenderanno?

Potrebbero esistere e, infatti, esistono – o meglio, esiste. Esiste una luce che abbaglia a volte, e altre è una paziente ed entusiasta attesa; una luce che acceca l’avversario e si lancia – alla velocità della luce? – lì dove si scompone in frangenti (di gioco): e si fa chiarore tutto intorno, per i compagni e per i tifosi, per coloro che cantano il nome di Felipe Anderson radioso.

Un Felipe Anderson fragile come il vetro di una lampadina, la lampadina del genio, che a stringerla troppo si rompe e a non incastrarla correttamente si fulmina; un Felipe Anderson che è a volte abbagliante e a volte buio pesto – ma quel buio pesto è consapevolezza di altro: di palla nascosta all’avversario e rivelata al portiere, di assist e occasione pericolosa creata. Di un ruolo cui mal si adatta eppure accetta, perché la luce non ha una direzione ben precisa e si proietta, piroetta, trapassa gli ostacoli e le marcature; di compagni che applaudono al guizzo mancato, come una mano che protegge gli occhi – solo per un momento, per un po’ di riposo.




Felipe Anderson è il faro di questa Lazio: l’uomo che ne segnala le difficoltà e le esaltazioni, come fossero racchiuse tutte in lui stesso: se vi è la luce danzante del numero 10, danza allora tutta la squadra. Per una intermittenza che però va preservata, mai banalizzata – che quando si crede di averne imparato a memoria la cadenza, quella cambia e torna ad essere un grande mistero. L’intermittenza consuma e rende di più, è speciale nell’accezione di diversa: non si spreca quel guizzo negli occhi e nei piedi, quel movimento che può durare secondi, e poi torna, e poi no. E non lo si ferma, quel guizzo – non lo si ferma se non con un fallo da rigore che però, neanche a dirsi, non viene segnalato. Non si ferma il motore luminoso di Felipe Anderson che è il motore luminoso della Lazio intera, non si protrae l’attesa per quel periodo oscuro che precede il fragore del lampo; è nella storia dell’intermittenza: si tornerà a brillare.






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