di Arianna MICHETTONI

Questa non è analisi retorica. Questa non è la classifica cannonieri. Questa non è l’azione smarcante, questo non è il pallone filtrante. Non è il tiro che colpisce la traversa, il palo interno e poi carambola in rete, nemmeno. Questo non è il campo di allenamento e intorno non ci sono gli spalti, e sopra non c’è il cielo, e intorno non c’è aria.




Questa non è la vita che scorre in 90 minuti e di quei 90 minuti si porta avanti un commento che qui, ancora, non c’è.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore – ecco, di cuore. Questo è un cuore. Un cuore che batte, se si è molto molto fortunati, un cuore che pompa sangue pulito e ossigeno. Questo è un cuore che accelera veloce durante una corsa, che filtra adrenalina durante una partita, che pulsa – lo fa mediamente settanta volte (settantuno, meglio) al minuto. Quattromiladuecento volte all’ora. Continua a contrarsi persino quando gli si chiede di non farlo – persino quando subisce un torto (arbitrale?) il cuore non tace. Continua la sua folle corsa che è tutta destino, salta gli ostacoli, si fa beffa del petto in cui sta. Il cuore è uguale nel santo e nel peccatore – non è democratico, no: è universale. Tutti ne hanno uno, anche chi finge di non averlo. Sì, anche Nainggolan ha un cuore: lui bestemmia e il cuore batte, lui fuma e il cuore batte, lui beve e il cuore batte. Il cuore di Nainggolan, insomma, batte, batte pure coperto dalla casacca giallorossa. Anche la delegazione biancazzurra, in visita agli ospedali di Roma e provincia, ha la sua giusta ed equa distribuzione di cuori. Il cuore allora si trova ovunque, generalmente rappresentato da due semicerchi convergenti in un vertice – un’immagine nota a tutti, scarabocchiata da tutti.




Eppure non può essere tutto qui, no, non può ridursi tutto ad una produzione su larga scala di organi interni disciplinatamente organizzata, non c’è una massificazione del cuore, una banalizzazione del cuore – un cuore stereotipato, cos’è. Eppure, se il cuore avesse una forma diversa, una struttura diversa, un colore diverso, una diversa posizione, se potesse distinguersi, solamente distinguersi, come potrebbe addurre un segno identificativo che significhi che quel cuore è uno solo, uno soltanto, dato ad una sola persona, non intercambiabile; dove potrebbe stare il marchio depositato, nelle venature forse. O ancora, meglio: nell’interezza. Un cuore è integro o non lo è. È rotto, o non lo è. Funziona, o non funziona. O è sano, o è malato.




Un cuore che non funziona lo si riconosce dalle parole che pronuncia: nessun cuore malfunzionante ha mai formulato frasi ben funzionanti. Un cuore ben funzionante non ha mai avuto espressioni ingiuriose o disprezzo per la vita – ché il disprezzo per la vita si intende in pensieri, fatti ed esempi, ad esempio il fattivo consumo di alcolici. Non una volta il cuore malfunzionante ha elogiato il suo opposto: tra malfunzionamento e maldicenza la strada è la parallela della malefatta, perché una malazione si riconosce – e si propaga la malvagità.




Un cuore malato, purtroppo, non può liberamente stare tra i cuori sani: deve indossare una mascherina, che è un po’ uno scudo dall’esterno per evitare che la condizione peggiori, che è un po’ una barriera (in)visibile tra il male e il bene – in fin dei conti, il bene.
La malattia, però, si può guarire – il malfunzionamento, invece, si può aggiustare: e sarebbe quindi buon funzionamento.
Il cuore funziona bene battendo – continuando a battere, ancora funziona. Il ritmo del battito: ecco il cenno distintivo. Se è all’unisono, allineato tra piccoli pazienti e grandi calciatori, è l’ingranaggio che muove, muove le braccia, muove la speranza. Se alterato, come una molla che salta e rimbalza e schizza via, schizzata davvero, che nessuno l’ha più vista, è inutile.



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